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“Io, infermiera contro il Covid, violentata in un parcheggio: ho creduto che sarei morta”

«Continuava a ripetere: “Fammi fare quello che voglio o ti uccido. Stai ferma e non urlare”. Non era un uomo, era una bestia quello che per quarantacinque minuti mi è stato addosso. Era il doppio di me e tutto il suo peso era sulla mia schiena. Si arrabbiava, perché avevo i jeans troppo stretti e non riusciva a levarmeli.
Quarantacinque minuti in cui ho capito che la mia paura più forte era quella di morire…».

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Francesca (nome di fantasia), 48 anni, vittima di una violenza sessuale avvenuta in pieno giorno e nel centro della città. Corso Arnaldo Lucci, parcheggio della Metropark (pieno di telecamere) nel primo pomeriggio di domenica della scorsa settimana. Lo stupratore è poi stato arrestato dalla polizia.

Paura di morire, ha detto, Francesca…
«Sì, perché l’orrore di essere violentata è stato superato dalla mancanza del respiro. Quell’uomo mi stava addosso e stringeva da dietro il braccio intorno al collo. Soffocavo».

Può raccontarci come è andata?
«Sono infermiera in una struttura pubblica. Lavoro in un reparto di Psichiatria dove ci stiamo occupando dei “reduci” del Covid. Escono traumatizzati dalla malattia e noi li seguiamo con affetto e attenzione. Domenica, dopo il lavoro, stavo tornando a casa, ad Avellino, e dopo aver preso la metropolitana ero arrivata alla Metropark in anticipo. L’autobus per Avellino, a causa della riduzione delle corse per l’emergenza Covid, sarebbe partito un’ora dopo. Alle due e mezza del pomeriggio non c’era anima viva, così mi sono seduta su una panchina ad aspettare».

Cosa è successo dopo?
«All’improvviso quest’uomo grande e grosso (un cittadino senegalese irregolare in Italia, accerterà poi la polizia, ndr) ha scavalcato una recinzione ed è venuto verso di me. Ho subito avuto paura, aveva l’aria minacciosa. Mi ha afferrato un braccio. Io ho subito pensato a una rapina: così, per salvarmi, gli ho dato la borsa. “Prendi tutto, ci sono i soldi”, ho detto. La risposta mi ha raggelato. Ha detto: “Non voglio i tuoi soldi, quelli ce li ho”. Poi mi ha strattonato e scaraventato per terra. Ho visto il mio cellulare volare via, mi ha strappato il giubbino di dosso. Ho capito che per me era finita».

E cosa ha fatto?
«Mi sono accovacciata a terra per proteggermi, ma lui mi ha preso alle spalle. Con tutto il suo peso si è messo sulla mia schiena provocandomi un dolore immenso. Non saprei dire se era più forte quello fisico o quello mentale. Mi infilava le mani dappertutto e si arrabbiava perché io mi difendevo. Diceva cose assurde, come in una litania: “Ti uccido, ti devo purificare, di tolgo il fuoco che hai dentro. Devi spogliarti di tutto, vestirti e pettinarti come dico io”. Io sentivo ma non respiravo con quella mano sulla bocca. Ad ogni istante pensavo: tra poco arriva l’autobus, tra poco compare qualcuno. Resisti Francesca, resisti, tu sei più forte di lui. Ce la devi fare, devi vincere…».

Quanto è durato questo incubo reale?
«Quarantacinque minuti, una eternità. Poi è passata una donna, avrà avuto quarant’anni. Ha visto tutto. Io sono riuscita a gridare: “Aiutami, chiama la polizia, i carabinieri, ti prego”. Ma lei si è allontanata, è scomparsa. Non ha fatto nulla. Altro che solidarietà tra donne. A volte le donne, tra loro, sanno essere cattive e indifferenti. Non ho avuto le allucinazioni, è stata ripresa dalle telecamere e la polizia sta cercando di identificarla».

Dunque l’incubo è andato avanti senza nessuno che la aiutasse.
«Nessuno. La città era deserta. In quarantacinque minuti non si è vista nessuna auto delle forze dell’ordine. La città non può essere abbandonata a se stessa. Le telecamere hanno ripreso tutta la violenza, ma nessuno stava guardando quei filmati in diretta, altrimenti sarebbe subito intervenuto. Usano i droni per trovare le persone che vanno sulla spiaggia nonostante l’emergenza Covid. Perché non li usano per prevenire queste e altre aggressioni?».

Eppure è riuscita a difendersi.
«Ho pensato di essere più forte io. Ho mentito per salvarmi. Gli ho detto di non farmi male perché ero incinta, gli ho detto che non riuscivo a respirare e che avevo bisogno di acqua, e poi gli ho detto che se arrivava qualcuno sarebbe stato arrestato. Ma lui continuava a cercare di strapparmi i jeans. La mia schiena era a pezzi, il collo pieno di lividi. Diceva: “Se urli ti uccido” e poi mi levava la mano dalla bocca nel tentativo di girarmi e mettermi con la schiena a terra. Mi sono aggrappata a un cassonetto dei rifiuti per impedirglielo. Fino a quando non è arrivato l’autobus…».

E cosa è successo?
«L’autista ha visto cosa stava succedendo, è sceso e ha cominciato a urlare. Intanto però è arrivato l’Esercito. Tre militari lo hanno circondato e a quel punto io sono riuscita ad alzarmi e mi sono rifugiata sull’autobus. Poi è arrivata anche la polizia, quattro volanti per bloccare quell’essere immondo. Non mi hanno lasciato più. Mi hanno portato in ospedale, per reazione mi è salita la febbre, tale è stato lo choc. La polizia ha avvertito mio marito. Hanno visto i filmati, alcuni poliziotti non ce l’hanno fatta a guardare fino alla fine per la rabbia e il disgusto. Ma voglio dire grazie alla dirigente delle volanti (il vice questore Francesca Fava, ndr), che ha capito cosa ho vissuto».

Come sta ora, Francesca?
«Male. Non sono tornata a lavorare, ho dovuto vivere il dolore di mia figlia che si sente ferita come donna e come figlia. E quello di mio marito che si sente in colpa e impotente per non avermi potuto proteggere. Sono traumi che travolgono tutta la famiglia. Ma la cosa che mi fa più male è la paura che ho avuto della morte e che ora mi impedisce di sorridere. Sul mio lavoro è importante. Aiutiamo tante persone che non riescono a riappacificarsi con la vita dopo un trauma. Ora è il Covid, ma ho seguito tante donne che hanno subìto violenza. E tutto si basa sulla comunicazione. Ora mi sembra di non poter trasmettere più, a chi ne ha bisogno, l’interesse per la vita. Anche con un sorriso. Invece posso solo vivere il mio dolore».
Fonte repubblica.it

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